26.12.08

Gli autocritici della domenica pomeriggio



Fare autocritica è comunemente considerata un'azione lodevole, una sorta di finezza d'animo che "non è da tutti". Se la fai significa che riconosci i tuoi sbagli, che hai l'umiltà di ammetterli, che hai la fortuna di imparare e migliorare. Ma, prima di santificare chiunque faccia autocritica, fermiamoci un attimo.

Ho letto che non è possibile sognare di morire. Magari sogni che ti sparano ma continui a vivere con un buco nello stomaco: il sogno non può finire. Penso che si possa estendere il concetto: non si può morire in un dialogo, in un discorso. 

Io posso, parlando con te, ammettere che ho sbagliato, che ho detto una cosa che non dovevo; posso anche spingermi oltre e affermare che è una parte del mio carattere ad essere sbagliata, che in fondo sono io che sono fatto male. Ma ciò non significherà mai un mio suicidio nel discorso. Il fatto stesso che sono qui, davanti a te, ad ammetterlo significa che per me ha un senso stare qui, ha un senso per me esistere in questo discorso, non andarmene. (Se io me ne andassi da questo dialogo che sto avendo qui con te, se gettassi la spugna, ciò non suggellerebbe la mia morte nel dialogo, ma solo una fuga per evitare conseguenze indesiderate. Come nel sogno, il fatto di svegliarsi non vuol dire che sono morto nel sogno.) 

L'autocritica diventa a volte l'espediente migliore per evitare la critica degli altri. Posso evitare strali altrui, amputando una parte di me, riconoscendola come non appartenente a me o, almeno, affermando che "non mi rappresenta". Chi fa autocritica a cuor leggero non bada tanto al difetto di sè che sta criticando, bensì al resto, a tutti i pregi che si riconosce. Afferma la parte buona di sè tacendola e parlando (con biasimo) della parte cattiva. Il rischio di santificare gli autocritici è quello di non cogliere questa sorta di narcisismo che li porta a liberarsi dei propri difetti, la ricerca della perfezione che passa addirittura per la propria amputazione, per il rifiuto di parti del proprio carattere o di specifici comportamenti.

Quando faccio autocritica, sia che lo faccia a cuor leggero, sia che io mi penta sinceramente, non sto parlando contro di me, sto solo parlando bene di me in negativo, indirettamente. Sono sempre io che vinco, altrimenti sarebbe un suicidio, un suicidio vero perché sarebbe sintomo di scarso amor proprio. L'autocritica, quando non è il preludio per un tentativo reale (non nel discorso o nel sogno, ma nella vita vera) di suicidio, è sempre proiettata al futuro, ha sempre un retrogusto di ottimismo.

L'autocritica, a mio avviso, deve continuare ad essere considerata una finezza dello spirito, ma solo quando è sofferta e porta conseguenze di ripensamento (visibili nei comportamenti). Un'autocritica troppo frequente e indolore nasconde il narcisismo. L'autocritica sincera è sofferenza e impegno.

Parafrasando la frase di un autore francese, l'autocritica non è un passatempo da domenica pomeriggio.

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